Problematiche salienti di sanità animale nella specie suina da affrontare con approcci di immunologia veterinaria

Massimo Amadori

Rete Nazionale di Immunologia Veterinaria, Brescia

 

Introduzione

La ricerca scientifica può tradursi in importanti aspetti traslazionali per la risoluzione di alcune problematiche salienti di sanità e benessere animale. In particolare, dagli studi di immunologia veterinaria sono scaturiti negli ultimi anni interessanti indicazioni per un approccio diagnostico pratico, di secondo livello, in cui si valuti l’idoneità degli animali a fronteggiare importanti stressori infettivi, alla base di malattie degli animali di interesse zootecnico, devastanti sul piano clinico e delle perdite economiche correlate. Ovvero, al di là della doverosa identificazione degli agenti eziologici correlati alle patologie di cui sopra, l’immunologia veterinaria può fornire in taluni casi indicazioni utili su come valutare l’impatto di tali patologie nella popolazione animale di nostro interesse e l’efficacia delle misure di profilassi sanitaria adottate in campo, a costi decisamente contenuti e con modesto impegno logistico ed organizzativo.

In tale documento saranno brevemente analizzate tre importanti problematiche di sanità animale nella specie suina, tuttora al centro dell’attenzione dei veterinari aziendali e degli altri operatori del settore.

 

La sindrome riproduttiva e respiratoria (PRRS)

Premessa. La PRRS del suino è un modello elusivo di interazione virus/ospite, in cui forti prove sperimentali e circostanziali mostrano che l'esito clinico dell'infezione è il prodotto di tre componenti: virulenza del virus, suscettibilità dell'ospite e stressori ambientali. In particolare, l’infezione da PRRSV ha dato origine a decorsi subclinici nel corso di diversi decenni, prima che PRRSV incontrasse i suini altamente sensibili, di tipo “lean” e a crescita rapida, allevati nell’Europa occidentale e in Nord America. I fattori di rischio per esiti clinici gravi sono stati esaurientemente descritti nella letteratura scientifica (Amadori M. et al., Pathogens 2021, 10, 1073).

La situazione è fortemente complicata da due fatti: 1) ad oggi nessun meccanismo di immunità adattativa classica (anticorpi, cellule T citotossiche, cellule T secernenti IFN-gamma, ecc.) è sicuramente correlato in forma univoca a protezione e, al contrario, certe forme di forte risposta immunitaria sono correlate alla gravità delle forme cliniche. 2) I modelli di immunizzazione e infezione sperimentale in stalla d’isolamento sono fuorvianti e non riproducono quello che avviene in campo.

Pertanto, a parità di substrato genetico, l’esito dell’infezione si gioca su 2 elementi: A) presenza/assenza di stressori ambientali (anche infettivi); B) la modulazione della risposta immunitaria innata tramite processo di “abituazione” al virus che, nelle concezioni più moderne si basa su un vero e proprio meccanismo di “Trained Immunity”, ovvero di insegnamento attivo che modula i meccanismi di risposta del sistema immunitario innato.

Quindi, il condizionamento del parco scrofe / scrofette va modernamente considerato come un processo più o meno efficace di “Trained Immunity”, che può essere omologo (eseguito con lo stesso agente microbico) o eterologo (con agenti eterologhi e con componenti di questi).  In pediatria, il fenomeno è noto da tempo: i bambini vaccinati col ceppo BCG di M. bovis sviluppano molte meno forme respiratorie di varia natura rispetto ai bambini non vaccinati.

Di fronte a questa situazione, i baluardi per il controllo della malattia restano: BIOSICUREZZA / CONTROLLO DEGLI AMBIENTI (benessere animale) / ACCLIMATAMENTO (istruzione del sistema immunitario innato) / DIAGNOSI RAPIDA IN CAMPO.

Se questi sono i caposaldi dell’azione di controllo, quali sono i punti deboli del sistema e come l’immunologia veterinaria può fornire un significativo contributo?  Le aree di possibile contributo sono almeno due:

  • Il controllo del condizionamento del parco scrofe / scrofette. Indipendentemente dall’età in cui si realizza il condizionamento, gli animali devono realizzare entro 4 settimane una significativa risposta anticorpale mucosale di tipo IgA, misurabile sulla matrice saliva raccolta con cordino di gruppo. E’ opportuno precisare che le IgA mucosali secretorie non sono di per sé gli effettori di immunità protettiva; esse condizionano però la differenziazione di macrofagi poco o per nulla recettivi all’infezione da PRRSV, contenendo così la replicazione virale. L’assenza di tale risposta denota una situazione a rischio e indica la necessità di proseguire e/o modificare il condizionamento in atto. Sono già disponibili i metodi di prova per eseguire tali accertamenti da implementare alla scala richiesta. Quale caveat, giova ricordare che le considerazioni di cui sopra valgono per allevamenti “stabili” per PRRS, mentre in quelli “instabili” si può osservare una defettiva risposta anticorpale mucosale in funzione della pressione infettante ambientale.
  • La valutazione della “pericolosità” dei nuovi ceppi PRRSV introdotti in azienda. Tale problema è della massima importanza in seguito alla ricircolazione di ceppi altamente patogeni tipo il “Rosalia” e alle forti perdite correlate, come dimostrato in questi anni in Spagna. In sostanza, è mio convincimento che il profilo di profilassi in azienda debba essere orientato da una valutazione di patogenicità dei ceppi di nuovo isolamento. Questa valutazione non è possibile con la sola valutazione delle sequenze genomiche virali di ORF 7 e ORF 5, comunemente in uso. Lo strumento adottabile è la valutazione dell’immunotipo virale, proposto anni fa dal gruppo di Mateu in Spagna (Gimeno M et al., 2011, Vet Res. 42:9) e da noi ripreso più recentemente (Ferlazzo G et al., Front Vet Sci. 2020 Jul 15;7:335). A tale proposito, si consiglia di allestire scorte controllate di cellule mononucleate da sangue periferico di scrofe SPF, incapaci di far replicare PRRSV, da congelare a numerosità controllata in azoto liquido. Una volta scongelate, tali cellule sono esposte a PRRSV a numerosità controllate (copie genomiche / mL da esito della PCR quantitativa). Successivamente, si preleva il surnatante e si esegue una valutazione delle principali citochine infiammatorie secrete. I ceppi altamente patogeni sono in grado di bloccare del tutto la risposta in IL-1beta, a differenza dei ceppi attenuati e di quelli moderatamente patogeni.

 

Colibacillosi post svezzamento da ceppi ETEC

La diarrea post-svezzamento (post weaning diarrhea in inglese, PWD) nei suini è riconosciuta come una malattia economicamente importante in tutto il mondo. Le caratteristiche più frequenti della malattia sono l'aumento della mortalità, la perdita di peso, il ritardo nella crescita, l'aumento dei costi di trattamento e dell’uso di antimicrobici.  L'Escherichia coli (E. coli) enterotossico (ETEC) è stato identificato come la causa più importante di PWD. Due specifici fattori di virulenza caratterizzano tipicamente il patotipo ETEC: la presenza di adesine fimbriali, che mediano l'attaccamento dei batteri agli enterociti intestinali dei suini, e le enterotossine, che alterano l'omeostasi dei fluidi nell'intestino tenue. Le fimbrie adesive più comunemente presenti negli ETEC dei suinetti con PWD sono la F4 (precedentemente nota come K88) e la F18.  Le strategie di controllo della malattia si basano sull'inclusione di fibre alimentari aggiuntive e la riduzione dei livelli di proteina grezza nelle diete post-svezzamento per contrastare gli effetti negativi della fermentazione delle proteine nell'intestino dei suini, in associazione con un aumento dell’età di svezzamento a 30-32 giorni di vita. Purtroppo, tali interventi sono poco realizzabili nelle aziende che detengono scrofe iperprolifiche. Specie in tali aziende, la recente mancata disponibilità di colistina e ossido di zinco nelle diete Starter ha comportato un notevole aggravamento delle forme di enterite post-svezzamento e delle perdite economiche ad esse correlate. Anche l’introduzione recente del primo vaccino vivo attenuato (Coliprotec, Elanco) suscita qualche perplessità, in funzione della possibile concomitanza tra trattamento vaccinale e trattamenti antibiotici.

Recenti studi in ambito nazionale (UNIMI, Milano / IZSLER, Brescia) delineano la possibilità di impiegare un vaccino inattivato a base di E. coli F4+ / F18+ per somministrazione orale allo svezzamento; tale approccio al controllo della malattia riprende indicazioni di campo e sperimentali che risalgono agli anni ’70 (Porter P. et al., The Veterinary Record, 1973, 92, 24, 630- 636). Tale prodotto non dovrebbe risentire di eventuali trattamenti antibiotici in corso e potrebbe complementare l’immunità passiva del colostro e del latte.  L’uso possibile di tale prodotto va associato con cura alla determinazione del profilo di risposta anticorpale di gruppo alle fimbrie nella saliva individuale o di gruppo e nelle feci. Il possibile sviluppo delle esperienze in questo settore potrebbe portare alla produzione di un vaccino stabulogeno sulla base dei ceppi isolati in campo e, in prospettiva, ad un vaccino registrato in collaborazione con un partner commerciale affidabile, con solida rete di distribuzione in Italia.

A supporto di queste operazioni, è necessario disporre di laboratori che sappiano impiegare e raffinare i metodi di prova per la valutazione dell’immunità mucosale nella specie suina.

 

Streptococcosi del suino: valutazione del rischio in azienda.

Le diverse forme cliniche sostenute da Streptococcus suis (specie la meningite) costituiscono un serio problema in molte aziende. I sierotipi 2 e 14 sono quelli a maggior impatto zoonotico nel mondo, mentre i sierotipi 2, 9 e 7 hanno grande importanza in generale nei Paesi europei. La numerosità dei sierotipi esistenti preclude di fatto lo sviluppo di un vaccino universale efficace e l’esperienza dei vaccini stabulogeni non è stata di fatto molto incoraggiante. Volendo considerare il modello meningite, forti evidenze cliniche e sperimentali nell’uomo hanno indicato da tempo che essa si sviluppa a seguito di gravi carenze dell’immunità innata, non adattativa, in particolare del sistema del complemento (Rosa DD et al., 2004, Braz J Infect Dis. 8, 4:328-330). Poco si sa delle forme congenite di deficienza di componenti del complemento nel suino. Si sa bene invece che tali componenti possono subire drammatici abbassamenti di espressione in seguito ad eventi stressanti, specie attorno allo svezzamento (Moscati L et al., 2011, Vet Scan On Line Veterinary Journal Vol. 6 No. 2, Article 90). E’ pertanto legittimo presumere che bruschi cali dei fattori dell’immunità innata in fasi stressanti del ciclo zootecnico possano predisporre all’insorgenza di patologie condizionate come la streptococcosi. Sulla base di tali elementi, si può ragionevolmente proporre di intervenire nelle aziende “problema” con un monitoraggio mirato a campione del complemento emolitico totale nei periodi immediatamente precedenti le fasi a rischio per la manifestazione della patologia, sulla base dei dati anamnestici aziendali. L’esperienza dimostra che bastano semplici interventi nei settori del benessere e dell’ igiene zootecnica per ripristinare valori accettabili dei parametri desiderati, compreso il complemento (Vedi pubblicazione Moscati et al., sopra citata). In tempi più recenti, è stata messo in luce con chiarezza che topi deficienti delle componenti C’3 e C’5a del complemento soccombono all’infezione sperimentale con Streptococcus suis; la capsula del patogeno gioca inoltre un ruolo importante nella propagazione dell’infezione (Seitz M. et al., Infection and Immunity p. 2460–2471 June 2014 Volume 82 Number 6).  Per quanto riguarda direttamente il suino, l’analisi di correlazione tra deposizione di C’3 sulla superficie di Streptococcus suis e sopravvivenza batterica nel sangue dei suini dimostra una chiara correlazione negativa; la deposizione del fattore C’3 del complemento è pertanto cruciale per limitare la sopravvivenza batterica e la conseguente batteriemia (Zhu et al. Veterinary Research , 2024, 55:14).

Nei laboratori nazionali esiste una notevole esperienza nella valutazione del complemento emolitico totale del suino, assieme ad altri fattori di immunità innata. Tali saggi possono utilmente fungere da indicatori accurati dell’efficacia degli interventi sugli ambienti zootecnici al fine della prevenzione delle patologie condizionate.

 

Considerazioni generali

Le azioni suggerite sopra menzionate comportano diversi livelli di impegno logistico ed organizzativo.

Per quanto concerne PRRS, la valutazione della risposta Ab IgG/IgA nei fluidi orali è da tempo descritta nella letteratura scientifica ed è estensibile a molti laboratori veterinari senza grossi problemi. Più complesso è il discorso per la valutazione dell’immunotipo virale, che richiede competenze di colture cellulari con personale sanitario e tecnico con buona esperienza nel settore.

Riguardo a colibacillosi da ceppi ETEC, le metodiche di laboratorio sono state da tempo descritte in letteratura scientifica e già sperimentate con successo in alcuni laboratori a livello nazionale. Oltre a ciò, i vaccini inattivati per ceppi ETEC di E. coli F4 e F18 potrebbero essere impiegati in prove sperimentali di dimensioni adeguata, per le quali sussistono già in Italia competenze ed esperienza ragguardevoli riguardo ai protocolli possibili d’infezione sperimentale (Luise D et al., 2019, J Anim Sci Biotechnol. 10:53).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


I controlli dei vaccini antiaftosi: un necessario ripensamento

Massimo Amadori
Rete Nazionale di Immunologia Veterinaria, Brescia

Premessa

Gli attuali focolai di afta epizootica in Ungheria e Slovacchia fanno seguito al precedente grave episodio in Germania nel gennaio di quest’anno e delineano una situazione grave nel continente europeo. Essa si colloca in un periodo difficile per gli scambi di animali vivi e di carni, quale il periodo pasquale, caratterizzato da flussi d’importazione assai rilevanti di agnelli e capretti. Essi risultano bloccati dalla Slovacchia, ma non dall’Ungheria e da altri Paesi dell’Europa centrale di stato zoo-sanitario per lo meno dubbio. In tale contesto, la questione della vaccinazione antiaftosa di emergenza è tornata di attualità in riferimento a due fatti precisi:

  • L’allestimento di un numero elevato di dosi di vaccino dalla riserva comunitaria su ordine della Germania.
  • L’impiego di parte di tali dosi per operazioni di vaccinazione “soppressiva” in alcuni dei focolai in corso.

Tali fatti si inquadrano in un contesto di obiettive difficoltà della sorveglianza sanitaria, di ridotta disponibilità di presidi immunizzanti e di ridotta potenzialità di controllo in ambito europeo. In sostanza, per quanto riguarda l’Italia, la sede di Brescia della Banca Europea dei vaccini antiaftosi venne smantellata nel dicembre 2004. Dopo un periodo di sostanziale incertezza, venne avviata una Banca Nazionale dei vaccini, che si esaurì però nel 2017.

Esaurite storicamente le competenze e le infrastrutture dei laboratori nazionali a partire dal 1991, la produzione e il controllo dei vaccini antiaftosi sono rimasti di competenza esclusiva dei produttori privati. Essi conferiscono antigeni inattivati alla banca centrale UE, in accordo col Regolamento UE 2022/140. Si registra di fatto un quasi monopolio in tale attività a partire dal 2017, allorquando Mèrial venne inglobata da Boehringer Ingelheim Animal Health. In tale contesto, l’attuale capacità produttiva di Boehringer potrebbe non essere all’altezza di un fabbisogno allargato di dosi vaccinali in caso di grave epizoozia in Europa.

Infine, per quanto riguarda le competenze tecniche nel controllo di tali vaccini, un drastico peggioramento si è verificato pure a partire dal 2017 con la Brexit, che ha comportato la perdita per la UE del laboratorio di Pirbright, sostituito a partire dal 2018 da un consorzio tra gli istituti ANSES (Francia) e Sciensano (Belgio). In particolare, non è chiaro se tale consorzio abbia un reale accesso agli antigeni inattivati della Banca Europea e se abbia un reale possibilità di controllo su questi.

Riassumendo: a fronte di una situazione zoo-sanitaria assai preoccupante e di un potenziale aumentato fabbisogno di vaccini antiaftosi, il quadro europeo complessivo è fonte di fondate preoccupazioni.

Il problema scientifico

I vaccini antiaftosi da impiegare per la vaccinazione di emergenza devono essere in grado di indurre protezione verso il ceppo di virus circolante entro 4-5 giorni al più tardi. Si tratta di impiegare vaccini potenti dello stesso sierotipo con almeno 8-10 DP50 (Dose Protettiva 50% stimata col metodo dei Probit), di correlazione antigenica sufficientemente elevata col virus di campo e di stabilità elevata dopo l’inattivazione (problema serio per i sierotipi SAT del virus aftoso). Si assiste inoltre ad un’evidente discrepanza tra i requisiti attuali per l’approvazione dei lotti di vaccino e la loro idoneità potenziale per l’impiego di emergenza. Di fatto, i vaccini antiaftosi devono possedere almeno 3 DP50 , valutate dopo saggio di infezione sperimentale a 21 giorni dalla vaccinazione o mediante saggio sierologico validato. Il saggio sierologico (Amadori M. et al., 1991, Biologicals, 19, 191-196) venne pure introdotto in Italia negli anni 90’. Tuttavia, entrambi i test sono potenzialmente fuorvianti poiché basati largamente sulla risposta anticorpale degli animali a 21 giorni dalla vaccinazione (saggio di neutralizzazione o Liquid Phase Blocking Sandwich ELISA). Al contrario, nel caso della protezione precoce a 4-5 giorni dalla vaccinazione, i saggi sierologici non sono predittivi: vi sono infatti bovini protetti in assenza di anticorpi neutralizzanti (Quattrocchi V. et al., 2014, Vaccine, 32: 2167-72). In realtà, le evidenze disponibili indicano che la protezione non è basata su meccanismi anticorpali, bensì da un complesso di citochine attivatorie e regolatorie che si accumulano rapidamente nel plasma degli animali vaccinati (Barnett PV et al., 2002, Vaccine, 20:3197-208). Tale dato non deve destare sorpresa. Molti anni or sono, era stato osservato un potente meccanismo di controllo cellulo-mediato della replicazione del virus aftoso in vitro (Amadori M et al.1992, Arch Virol. 122, 293-306) ed era stato indicato un ruolo importante dei linfociti T a recettore gamma/delta (Amadori M. et al., 1995, Viral Immunol. 8: 81-91), di numerosità assi elevata nei bovini e in altri ruminanti (Hein WR, Mackay CR. 1991. Immunol Today. 12: 30-34). Altri dati scientifici hanno inoltre messo in evidenza che tali cellule T gamma/delta possano essere attivate dai vaccini inattivati, come evidenziato ad esempio nel modello Leptospira (Wilson-Welder JH et al, 2021, mSphere 6:e00988-20). Un loro ruolo importante non può essere escluso infine nella protezione assai precoce osservata dai colleghi russi di Vladimir (a 24 ore dalla vaccinazione), che si ottiene inoculando vaccini di potenza assai elevata (circa 300 DP50) nelle labbra dei bovini prima della infezione sperimentale (Dudnikov A.I. et al., 1995, Proceedings FAO Research Group of the EUFMD, Vladimir, Russian Federation, 20-22 September 1995, pp 84-100).  Infine, ci sono prove schiaccianti che la differenza abnorme di disseminazione ambientale di virus aftoso tra bovini e suini è dovuta al blocco sostanziale delle funzioni NK (Natural Killer) nel suino, a differenza di quanto osservato invece nei bovini (Toka FN, Golde WT. 2013. Immunol Lett. 152:135-43). Gli anticorpi non hanno sostanzialmente un ruolo in questi fenomeni precoci post vaccinazione e post infezione. Pertanto: gli attuali saggi di controllo dei vaccini antiaftosi potrebbero essere imprecisi o forse addirittura fuorvianti in riferimento al requisito di protezione precoce.

Che cosa si può fare

In generale, si può affermare che è necessario ricostruire in ambito UE serie competenze in questo settore ed effettive possibilità di controllo sugli antigeni della Banca europea, anche sul piano legale.

Sul piano delle soluzioni tecniche, il primo passo da compiere è sicuramente allestire materiali di riferimento idonei; innanzitutto aliquote di sieri bovini prelevati a 4-5 giorni dalla vaccinazione con vaccini antiaftosi di potenza controllata o dalla somministrazione del solo adiuvante (controllo). Su tali sieri dovrebbe essere valutato il profilo di alcune citochine circolanti valutate in precedenza in bovini risultati protetti e si dovrebbero definire requisiti minimi derivanti dal paragone con i risultati dei sieri controllo.

Rimane comunque il problema di capire quale possa essere la protezione precoce dei bovini vaccinati esposti al nuovo ceppo di campo. Per risolvere tale problema, credo che si possa utilizzare la tecnologia ELISPOT (Slota M et al., 2011. Expert Rev Vaccines. 10:299-306) su aliquote di cellule mononucleate di sangue periferico (PBMC) di bovini vaccinati e di bovini di controllo, congelate in azoto liquido. I saggi ELISPOT mettono in evidenza la frequenza di linfociti T specifici per un particolare antigene, secernenti citochine di attivazione (di solito interferon-gamma, vedi figura 1).  Tali aliquote di PBMC congelate sono state da tempo validate all’impiego nei saggi ELISPOT (Smith JG et al., 2007, Clin Vaccine Immunol. 14:527-537). In pratica, tali aliquote di PBMC verrebbero messe a contatto per 24-48 ore con una concentrazione controllata del nuovo virus di campo (circa 1 microgrammo/mL), previa sua inattivazione. L’incubazione avverrebbe in pozzetti di piastrine di nitrocellulosa o PVDF sensibilizzate con anticorpo monoclonale anti IFN-gamma bovino. Alla fine di tale periodo, la risposta in “IFN-gamma secreting cells / 105 PBMC” sarebbe valutata rispetto a quella dei PBMC di controllo (prelevati da bovini trattati col solo adiuvante dei vaccini). Un incremento di 3-4 volte rispetto al fondo negativo sarebbe indicativo di significativa attivazione del sistema immunitario. A tal fine, esistono strumenti di laboratorio molto avanzati in grado di valutare finemente tale risposta.

Inoltre, sulle stesse aliquote di PBMC a vitalità controllata, è pure possibile valutare il potenziale di risposta anticorpale a 1-2 settimane. Ovvero, come già dimostrato in precedenza, il contatto prolungato in vitro (7-10 giorni) tra tali PBMC e il virus inattivato di campo in questione provoca una risposta delle cellule B che porta alla sintesi di anticorpi specifici misurabili con saggio ELISA o di neutralizzazione, sintesi modulata positivamente da interferon-alfa (Amadori M. et al. 2011, Proceedings IV Workshop nazionale di virologia veterinaria, Brescia, 9-10 giugno 2011, pp. 79). Tale attività dipende dalla presenza nei PBMC di cellule B mature specifiche, esposte in precedenza ai segnali di sopravvivenza BAFF e APRIL (Mackay F et al., 2003  Annu Rev Immunol. 21:231-264). Trattasi quindi di saggio predittivo sulla performance dei vaccini nel periodo successivo a quello sopra nominato di 4-5 giorni post-vaccinazione. 

Conclusioni

L’attuale crisi zoo-sanitaria in Europa impone di attuare scelte coerenti ai fini di un più efficace controllo dell’Afta Epizootica. Si rende necessaria in particolare una valutazione indipendente, obiettiva e scientificamente fondata degli attuali presidi immunizzanti. Un’ultima riflessione va rivolta alle ottime prestazioni del vaccino ricombinante a base di Adenovirus umano sierotipo 5, esprimente capside virale intero vuoto, senza RNA virale (Barrera J et al., 2018. Vaccine, 19:7345-7352). Tale processo produttivo non comporta i problemi di biosicurezza associati alla produzione dei vaccini antiaftosi tradizionali; la sua implementazione da parte dell’industria europea potrebbe costituire uno strumento utile per dotare l’Europa di quantità idonee di vaccini antiaftosi potenti ed innocui.